La psicoterapia modifica il cervello: le tecniche neuroradiologiche
Un centinaio d'anni or sono, alla fondazione della psicoanalisi, Freud si chiese se un giorno sarebbe stato possibile gettare un ponte tra la psicoanalisi stessa e le neuroscienze. Poiché le conoscenze del cervello di quel tempo non consentivano questi scambi, egli ipotizzò che in futuro sarebbe stato possibile integrare la psicoterapia con le conoscenze neurologiche, a tutto vantaggio del paziente.
Ma i tempi non erano maturi.
Solo in questi ultimi anni, infatti, cominciano a delinearsi nuove prospettive in tal senso. Ancor oggi, nella pratica clinica, psicologi e neuroscienziati, se non addirittura psicologi e psichiatri, lavorano spesso senza tener conto gli uni dagli altri. Ci proponiamo adesso di accennare, in estrema sintesi, alcune delle più significative evidenze sul tema che sono emerse dalla ricerca recente. La psicologia, è bene ricordarlo, ha cercato fin dai primordi uno scambio con le scienze mediche, ma i risultati erano stati sempre scarsi.
Gli ultimi studi mostrano in modo inequivocabile che il cervello viene modificato nella sua struttura più complessa neuronale.
Un primo punto basilare riguarda i disturbi depressivi. Essi hanno sollevato un vivace dibattito: hanno cause biologiche o psicologiche, o meglio entrambe?
La posizione tradizionale era sin troppo semplice, espone il Prof. Michele Fonti Psichiatra Si riteneva di applicare al primo caso una terapia farmacologica, ed al secondo una psicoterapia. Si accettava anche la prospettiva di un’integrazione, ma nella convinzione che vi fosse una sola terapia realmente efficace.
Purtroppo, o per fortuna, secondo il punto di vista, la realtà non è così semplice. Gli studiosi ipotizzano e ora hanno evidenza infatti che dati di genetica molecolare potrebbero cambiare la psichiatria, e di converso il lavoro psicoterapeutico a lungo termine possono persino modificare alcuni meccanismi dell’espressione genica.
Altro fondamentale campo d’indagine, non disgiunto dalla tematica che ci interessa, è quello della psiconeuroimmunologia (PNI). I primi passi sono stati mossi negli anni ’80, seguendo intuizioni molto precedenti. Sistema nervoso ed immunitario comunicano ininterrottamente, poiché condividono mediatori e centri di scambio.
Negli anni ’80, con il trionfo di nuovi psicofarmaci, e con la visione, parallelamente, della depressione come malattia e carenza nel cervello di qualche molecola, la psicoterapia, in certi ambienti scientifici, era ritenuto un trattamento di modesta efficacia, adatto per lievi problemi, se non addirittura ormai superato.
Fortunatamente alcune meta-analisi cominciarono a dimostrare che la terapia cognitivo-comportamentale, per ricordare una delle più conosciute, è efficace per la depressione in misura paragonabile alla farmacoterapia, mentre si dimostra più efficace dei farmaci nel prevenire le ricadute.
La prova definitiva dell’efficacia delle tecniche psicoterapeutiche è venuta però da pochi anni, con l’applicazione delle immagini di risonanza magnetica.
Ricorderemo adesso di alcuni dei più significativi studi.
Osserviamo anzitutto che è più semplice avere risultati ben dimostrabili quando si tratta di curare una fobia definita. Nel caso dei disturbi depressivi l’indagine è più complessa.
Nel primo caso, riassumiamo uno studio molto citato di Paquette; si tratta di uno studio sulla fobia per i ragni. La risonanza magnetica prima della terapia e con esposizione allo stimolo fobico mostra un’iperattivazione di alcune aree della corteccia frontale. Tale fenomeno scompare dopo la terapia condotta con successo. Si nota, in altre parole, una normale attivazione delle aree visive. Lo studioso conclude che la dimostrazione non lascia adito a dubbi. Ciò è senz’altro vero nel caso specifico, ma per le problematiche più complesse siamo ancora alle prime dimostrazioni. Questi studi stranieri sono ancora pochi e innovativi, mentre in Italia veramente pochi si sono occupati della questione.
Gli studi sperimentali si sono avvalsi delle attuali metodiche di visualizzazione in vivo del cervello, che sono la tomografia ad emissione di positroni (PET) e la risonanza magnetica funzionale (fMRI). I primi risalgono a non più di una decina d’anni fa. Sono stati esaminati gruppi diversi di pazienti, affetti dal disturbo ossessivo-compulsivo, dalla fobia specifica o sociale, ed altri con disturbi depressivi maggiori o schizofrenici.
Ovviamente questi studi sono ancora pochi rispetto a quelli che, con le stesse metodiche, hanno studiato l’efficacia dei farmaci.
I risultati fondamentali, in tutti i gruppi esaminati, sono tre.
In primo luogo la psicoterapia apporta significativi cambiamenti nell’attività funzionale cerebrale dei pazienti, e tali modificazioni sono strettamente correlate al miglioramento clinico. Tali cambiamenti, inoltre, riguardano l’attività funzionale delle aree, sia corticali sia sottocorticali, implicate nella specifica patologia e non altre aree.
Ma ciò che è veramente suggestivo è che la ricerca ha dimostrato che sia la psicoterapia che il farmaco sono entrambi efficaci nella cura delle diverse patologie psichiatriche, generando entrambe un efficace miglioramento clinico, ed entrambe le modalità di trattamento modificano l’attività neuronale, spesso delle medesime aree del cervello, ed inducendo anche cambiamenti, nella stessa direzione, di alcuni parametri biologici.
Accenniamo ora, caso per caso, ad alcuni disturbi.
Il disturbo ossessivo-compulsivo (DOC)
Secondo alcuni ricercatori dell’Università della California di Los Angeles, (Schwartz) i sintomi caratteristici del disturbo sarebbero sostenuti da una disfunzione del circuito neuroanatomico che interessa sia la corteccia orbitofrontale che i gangli della base ed il talamo. In breve, nei pazienti che hanno tratto un beneficio significativo dalla psicoterapia cognitivo-comportamentale, si nota alla visualizzazione in vivo una normalizzazione nel tasso del metabolismo del nucleo caudato, che è una struttura sottocorticale. Tale nucleo è parte fondamentale di un circuito che interessa strutture corticali e sottocorticali. Il funzionamento alterato di quest’ultimo sosterrebbe, secondo le ipotesi teoriche, i sintomi.
Inoltre la ricordata normalizzazione del nucleo caudato renderebbe più indipendente il funzionamento delle strutture prima ricordate, ovvero la corteccia orbitofrontale, i gangli della base ed il talamo. L’eccesso di legame nel funzionamento di tali strutture sarebbe strettamente legato al disturbo clinico.
La fobia sociale e la fobia specifica
Com’è noto, le fobie sono caratterizzate da un’eccessiva ed irrazionale paura di determinati oggetti o situazioni sociali. Trattamenti ritenuti efficaci sono i farmaci che inibiscono il riassorbimento della serotonina e la psicoterapia cognitivo-comportamentale (CBT) che utilizza largamente, in questo caso, la tecnica dell’esposizione in vivo alle situazioni ansiogene e quella della ristrutturazione cognitiva.
Nuovamente, pochi sono gli studi neurofisiologici che hanno indagato le correlazioni tra miglioramento sintomatologico e modificazioni neurofisiologiche.
Furmark e coll. idearono uno studio al fine di indagare i cambiamenti neurofunzionali associati al miglioramento clinico di un gruppo di dodici pazienti con fobia sociale. Essi furono sottoposti a nove settimane di trattamento farmacologico (citalopram) o psicoterapico (CBT). Le registrazioni furono confrontate con un campione di sei pazienti affetti dallo stesso tipo di disturbo non sottoposti ad alcun intervento.
Per mezzo della tomografia ad emissione di positroni (PET) fu studiata l’irrorazione sanguigna cerebrale durante l’esecuzione di un compito molto ansiogeno, quello di tenere un discorso in pubblico. I tre gruppi selezionati non presentavano, prima delle tre diverse condizioni sperimentali, alcuna differenza statisticamente significativa.
Al termine, come atteso, i due gruppi sottoposti ai trattamenti mostrarono un cospicuo miglioramento dei sintomi clinici, mentre il gruppo in attesa non esibì alcuna variazione di rilievo.
In entrambi i gruppi trattati, quattro pazienti furono giudicati rispondenti al trattamento e due non rispondenti. Ciò sembrerebbe confermare, secondo i ricercatori, che entrambi i trattamenti possono considerarsi efficaci. L’analisi dei dati PET mostrò maggiori cambiamenti proprio nei pazienti rispondenti al trattamento, mentre nei pazienti in lista d’attesa non risultarono cambiamenti significativi.
L’indagine PET, condotta al termine dello studio nei pazienti migliorati, rivelò un apprezzabile decremento bilaterale del flusso sanguigno a livello dell’amigdala, dell’ippocampo e della corteccia temporale mediale e anteriore, con una riduzione più netta nell’emisfero di destra.
In particolare, nel gruppo trattato col farmaco si è evidenziato un decremento dell’irrorazione del talamo di sinistra e nella corteccia frontale inferiore di sinistra, mentre nel gruppo sottoposto a psicoterapia si è registrata una diminuzione del flusso sanguigno nel grigio periacqueduttale ed un incremento nel cervelletto e nella corteccia visiva di secondo ordine di destra, mentre in tutti i pazienti rispondenti al trattamento si è rilevato un decremento del flusso nella corteccia frontale inferiore di destra, nella corteccia prefrontale dorsolaterale di destra e nella corteccia cingolata anteriore d’entrambi gli emisferi.
Gli studiosi dice il Prof. Michele Fonti Psichiatra condussero un approfondito confronto dei dati PET rispetto alle scale di misurazione dei sintomi clinici. Le conclusioni furono che il fattore cruciale in grado di discriminare i pazienti migliorati dagli altri, al follow-up dopo un anno, era la maggior diminuzione dell’apporto di sangue durante la performance in pubblico al termine del trattamento, a livello dell’amigdala bilaterale, del grigio periacqueduttale e del talamo di sinistra.
E’ben noto che l’amigdala è essenziale nell’espressione delle reazioni di paura ed ansia scatenate dagli stimoli minacciosi, mentre l’ippocampo è coinvolto anch’esso nel circuito neurobiologico della paura tramite il suo ruolo nel consolidamento e recupero di memorie collegate alla fobia stessa.
Secondo gli Autori, dice il Prof. Michele Fonti Psichiatra la CBT potrebbe, attraverso l’esposizione in vivo, indurre un effetto d’abituazione che interessa proprio l’amigdala, l’ippocampo ed altre aree.
Altro studio che abbiamo già citato è quello di Paquette, a capo di un gruppo di ricercatori canadesi. In questo caso l’oggetto d’indagine è più specifico, riguarda cioè la fobia dei ragni. I pazienti sono stati sottoposti a quattro settimane di CBT. Per visualizzare il cervello in vivo è stata utilizzata la risonanza magnetica funzionale fRMI. E’ stato utilizzato un gruppo di controllo di soggetti non affetti da fobia.
Le misurazioni hanno evidenziato, nei pazienti fobici esposti al materiale ansiogeno, prima del trattamento, una significativa attivazione della corteccia prefrontale dorsolaterale di destra e del giro paraippocampale di entrambi gli emisferi, ed un’attivazione di alcune regioni della porzione ventrale della corteccia associativa. Al termine del trattamento psicoterapico tutti i pazienti trattati hanno mostrato, insieme con una riduzione significativa della paura esperita, un’attivazione sensibile di alcune regioni situate nella porzione ventrale del sistema visivo ed anche del lobulo parietale superiore di entrambi gli emisferi e del giro frontale inferiore di destra, e di converso nessuna attivazione significativa della corteccia prefrontale dorsolaterale e del giro paraippocampale.
Rimandiamo, per brevità, allo studio citato chi volesse approfondire le ipotesi avanzate dagli studiosi sul significato delle modificazioni neurofisiologiche ricordate.
Il disturbo depressivo maggiore
Com’è noto, per questo disturbo le ricerche neurofisiologiche sono numerose. Le indagini precedenti agli studi che qui ci interessano avevano da tempo messo in evidenza che, in prima approssimazione, le aree encefaliche che mostrano un pattern anomalo sono quelle anteriori, e precisamente la corteccia prefrontale dorsolaterale e ventrolaterale, il giro del cingolo anteriore e l’insula, il lobo temporale ed alcune regioni sottocorticali come il talamo ed i gangli della base.
Vediamo ora due studi che hanno cercato di far luce sulle modificazioni neurofisiologiche indotte sia dalla farmacoterapia sia dalla psicoterapia.
Nello studio di Brody e coll. i soggetti furono sottoposti a dodici settimane di trattamento con la psicoterapia interpersonale o col farmaco paroxetina.
Le rilevazioni prima del trattamento mostrarono che i ventiquattro pazienti depressi, rispetto ai sedici del gruppo di controllo, evidenziavano un maggior metabolismo a livello della corteccia prefrontale, sia dorsolaterale sia ventrolaterale, del nucleo caudato e del talamo ed un minor metabolismo a livello del lobo temporale inferiore.
L’analisi PET effettuata dopo la psicoterapia e la farmacoterapia mise in luce un cambiamento, in senso migliorativo, delle aree prima ritenute alterate. Precisamente, si osservò una minor attivazione della corteccia prefrontale, del nucleo caudato dorsale e del talamo ed una maggior attivazione del lobo temporale inferiore ma anche dell’insula inferiore, una regione che alla prima misurazione non aveva mostrato un pattern metabolico diverso dai soggetti di controllo.
La Hamilton Depression Scale rivelò un miglioramento clinico maggiore dopo farmacoterapia, ma occorre tener presente che il gruppo sottoposto a questo trattamento aveva una minor compromissione clinica iniziale, secondo gli Autori, rispetto al gruppo sottoposto a psicoterapia.
Confrontando i dati PET dei gruppi sottoposti alle due terapie, nel gruppo di pazienti della farmacoterapia si era verificato un decremento del metabolismo a livello del giro frontale medio di destra e di sinistra, della porzione ventrale del giro del cingolo anteriore di sinistra e del nucleo caudato dorsale di destra ed un aumento del metabolismo a livello del lobo temporale inferiore di sinistra e dell’insula di destra, mentre nel gruppo trattato con la psicoterapia si era verificata una riduzione del metabolismo a livello del giro frontale medio di destra, della porzione media del giro del cingolo anteriore di sinistra e del nucleo caudato dorsale di destra ed un aumento del metabolismo a livello del lobo temporale inferiore di sinistra e dell’insula di destra.
In breve, quindi, la psicoterapia e la farmacoterapia agiscono sul cervello dei pazienti affetti da sindrome depressiva inducendo cambiamenti simili. Lo studio appena riassunto è coerente con i dati di altri ricercatori, a parte alcune differenze nei pattern metabolici dovute forse ad una diversa gravità della sindrome del campione dei pazienti.
I ricercatori hanno affermato che quanto osservato con la PET è coerente con il meccanismo d’azione dei farmaci: gli SSRI agiscono aumentando la disponibilità di serotonina nel cervello, che, interagendo con altri sistemi, ha l’effetto di ridurre la quantità d’input eccitatori alla corteccia prefrontale e al giro del cingolo anteriore, la cui minor attivazione produce una riduzione degli input eccitatori al nucleo caudato; in questo modo si produrrebbe un’attenuazione dell’attività del circuito corteccia prefrontale (giro del cingolo anteriore)-gangli della base-talamo, circuito che secondo molti esperti, sarebbe basilare nella sindrome depressiva.
Nello studio di Martin e coll., d’altra parte, si sono indagate le differenze nei pattern d’irrorazione di quelle aree cerebrali che la ricerca aveva indicato essere alterate dalla sindrome depressiva.
Inoltre, il confronto delle misure effettuate con diverse scale cliniche ha messo in luce una significativa riduzione dei sintomi della depressione in entrambi i gruppi dei pazienti trattati.
L’analisi dei dati ottenuti con la SPECT ha mostrato, tra la prima e la seconda misurazione dell’attività cerebrale, un aumento del flusso a livello della corteccia temporale posteriore di destra e dei gangli della base di destra nel gruppo trattato col farmaco ed un aumento del flusso di sangue a livello della porzione limbica del giro del cingolo posteriore di destra e dei gangli della base di destra nel gruppo di pazienti sottoposti a psicoterapia.
In sintesi, si è avuto un aumento nei gangli della base di destra in tutti i pazienti ed un aumento del tasso di irrorazione sanguigno a livello limbico solo nei pazienti sottoposti a psicoterapia.
Questo studio ha vari limiti, tra i quali l’impiego di un solo psicoterapeuta, l’assenza del gruppo di controllo ed un periodo di trattamento limitato, pertanto i dati non possono essere ritenuti conclusivi.
Diversi studiosi hanno affermato che gli studi appena ricordati mostrano che la psicoterapia e la farmacoterapia producono cambiamenti simili nel cervello dei pazienti con disturbo depressivo maggiore. In altre parole farmaci, e persino trattamenti, diversi, producono modificazioni metaboliche notevolmente simili. A tutt’oggi, in ogni modo, siamo ancora ad uno stadio preliminare d’indagine neurofisiologica rispetto ai temi accennati.
Altri campi d’indagine
Abbiamo accennato, fino a questo punto, ad alcuni disturbi psicopatologici per i quali la ricerca neurofisiologica ha prodotto diversi studi. Essi sostengono con evidenza crescente che la psicoterapia ha la capacità, con modalità sorprendentemente simili alla terapia psicofarmacologica in senso stretto, di indurre modificazioni nel metabolismo cerebrale, in senso migliorativo, rispetto a molte strutture encefaliche. Le stesse strutture erano state da tempo considerate implicate nei disturbi psichici di volta in volta osservati.
Naturalmente vi è notevole interesse per i possibili effetti neurofisiologici della psicoterapia anche in altre patologie di grande rilevanza. Esse sono, principalmente: il disturbo da attacchi di panico, la sindrome post-traumatica da stress, e la schizofrenia.
Non possiamo approfondire qui questi temi, non solo per ragioni di spazio, ma anche perché la ricerca è ad uno stadio ancora più iniziale di quella relativa alle patologie fin qui considerate. Ci limiteremo, per concludere, a qualche spunto.
Per il disturbo da attacchi di panico non sembrano esistere validi studi relativi all’efficacia della psicoterapia sui parametri metabolici.
Per il disturbo post-traumatico da stress, similmente, non sono ancora disponibili studi che abbiano indagato i cambiamenti cerebrali indotti da un efficace trattamento psicoterapico, anche se esistono complessi modelli teorici che hanno cercato di illustrare i meccanismi d’azione dei trattamenti psicoterapici conclusi con successo.
Più complesso è il discorso concernente la schizofrenia.
Diremo soltanto che, ove sia possibile applicare una forma di psicoterapia, essa sarà, ovviamente, ben diversa dalle metodologie impiegate per i disturbi nevrotici. In questo senso possiamo rilevare che quei trattamenti applicati allo scopo di migliorare le abilità comportamentali e cognitive dei soggetti hanno dato risultati incoraggianti. Si sono osservati, infatti, sia miglioramenti clinici nelle abilità dei soggetti trattati, sia, cosa più importante, sensibili miglioramenti metabolici all’indagine PET.
In sintesi, i risultati di alcuni studi (Wykes, Penades) evidenziano che una strategia terapeutica volta a migliorare le abilità cognitive e le strategie di elaborazione delle informazioni dei pazienti schizofrenici riduce l’ipoattivazione delle aree frontali. Queste ultime sono ritenute da tempo fondamentali nel determinare i deficit cognitivi della patologia stessa.
Inoltre la psicoterapia induce una maggior attivazione di tali aree in seguito alla performance dovuta ad un compito cognitivo richiesto ai pazienti.
Possiamo quindi affermare che anche nelle patologie più gravi la psicoterapia, “su misura” dei soggetti e correttamente applicata, può attivare rilevanti cambiamenti nel funzionamento delle strutture encefaliche implicate.
Naturalmente restano numerosissimi interrogativi aperti, non menzionati dagli studi citati, relativi a quali possano essere le caratteristiche della psicoterapia in grado di generare le modifiche illustrate, in altre parole ai fattori d’efficacia di una buona psicoterapia.
Bibliografia
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a cura dello Michele Fonti Psichiatra